Zorobabele, libro di, un’opera che descrive la visione di Zorobabele, ultimo sovrano della casa di Davide. Secondo le date date nel testo per le varie fasi della redenzione, quest’opera fu probabilmente scritta all’inizio del VII secolo, all’epoca delle ultime vittorie dell’Impero bizantino sulla Persia (629). A chi viveva in EreIsraele a quel tempo, poteva sembrare che fosse arrivata l’ultima fase della vittoria sull’Impero Romano e sulla Chiesa Cristiana e che la venuta del Messia fosse imminente. Poiché non si fa menzione degli arabi e dell’Islam, la cui invasione poco dopo (637) ha eclissato queste vittorie, si può presumere che si tratti di un’opera preislamica.
Scritto in stile biblico, specialmente come si trova nelle visioni di Ezechiele e Daniele, il libro descrive la rivelazione a Zorobabele degli eventi della Fine dei giorni da parte dell’angelo Michele, o Metatron. Oltre alle figure del Messia figlio di Giuseppe e del Messia figlio di Davide, che sono standard in tali scritti apocalittici, vengono introdotte due nuove figure: Efzi-Bah, la madre del Messia figlio di Davide, che svolge un ruolo di primo piano nel messianico guerre; e Armilus (probabilmente Romolo), il nemico, che è raffigurato come un mostro, figlio di Satana e di un monumento in pietra di una donna. Sia Cesare che papa, Armilo unisce i poteri di Augusto e Gesù, simboleggiando così il male materiale e religioso insieme. La vittoria del Messia e di sua madre su Armilus rappresenta quella del giudaismo sull’impero romano e sulla chiesa cristiana. Poiché la storia – drammatica di tante guerre e disastri apocalittici – non ha sfumature teologiche, era accettabile per ogni movimento ideologico del giudaismo (eccetto i seguaci di Maimonide).
Trovato in innumerevoli manoscritti medievali e stampato in molte collezioni diverse, il Libro di Zorobabele divenne la fonte standard per le descrizioni della fine dei giorni e della venuta del Messia. Inoltre, molti pensatori ebrei ne furono influenzati, da Saadiah Gaon, che basò un suo capitolo Emunot e-De’ot su di esso, a Nathan di Gaza, il profeta di Shabbetai Ẓevi, che lo usò per dimostrare che Shabbetai era il Messia. L’odio duraturo che gli ebrei provavano nei confronti dei romani e dei cristiani per tutto il Medioevo rese quest’opera popolare per oltre mille anni dopo la sua composizione.
bibliografia:
A. Jellinek, Beit ha-Midrash, 2 (1938), 54–57; I. Levi, in: rej, 68 (1915), 129–60; Y. Even-Shmuel, Midreshei Ge’ullah (1954), 56-88.
[Joseph Dan]