Dato che il buddismo è regolarmente inteso come un movimento monastico dedito a “lasciare la famiglia” (pravrajyā), il termine tecnico per diventare monaco o monaca, potrebbe sembrare strano chiedersi del rapporto del buddismo con la famiglia. Perché, dopo tutto, il buddismo come religione di rinuncia avrebbe qualcosa a che fare con la vita familiare? Tuttavia, uno sguardo più da vicino alla struttura della retorica buddista, così come ai vari ruoli sociali del buddismo, rivela che il rapporto del buddismo con la famiglia e i valori familiari ha diversi strati inaspettati.
Probabilmente ci sono almeno quattro categorie di base del discorso buddista che si concentrano su questioni familiari: (1) un discorso sugli aspetti negativi della vita familiare, il linguaggio della rinuncia; (2) un linguaggio simbolico in cui l’identità all’interno del contesto monastico è intesa come una sorta di replica della famiglia patriarcale, una sorta di familismo aziendale; (3) linee guida per una corretta condotta a casa, consigli pastorali dall’establishment buddista; e (4) affermazioni di lignaggio specifico che cercavano di stabilire una famiglia d’élite all’interno della famiglia monastica, una forma più specializzata di familismo aziendale.
Quanto al primo, il linguaggio della rinuncia, le affermazioni riguardanti gli aspetti insoddisfacenti e persino pericolosi della vita familiare sono tipiche di tutto il mondo buddista. Secondo questa logica, la vita in famiglia è irta di desideri ardenti e preoccupazioni laceranti. Di conseguenza, la vita a casa è essenzialmente l’ambiente in cui si sviluppano modelli di comportamento e di pensiero che continueranno a legarci nel ciclo di nascita e morte (saṂsĀra) e impediranno di progredire verso il nirvĀṆa. Tra queste affermazioni sui rischi generici della vita familiare, si possono trovare anche affermazioni più specifiche sui pericoli fisici che le donne corrono mentre seguono il ciclo di vita prescritto all’interno della famiglia, i rischi del parto sono fondamentali. In sintesi, in questa sfera del discorso le autorità buddiste incoraggiano la riflessione sui vantaggi di lasciare il dominio gravoso e pericoloso della vita familiare per perseguire obiettivi spirituali più elevati.
La seconda sfera della retorica familiare appare quando i rinuncianti buddisti iniziarono a stabilirsi in gruppi religiosi proprietari terrieri, circa due secoli prima dell’inizio dell’era comune. A questo punto, anche se i mali della vita familiare erano ancora abbracciati, le relazioni monastiche venivano spiegate attraverso una sorta di familismo aziendale. A quanto pare, i buddisti iniziarono a costruire un’ulteriore famiglia, in realtà una forma più pura di patriarcato, che doveva consolidare e legittimare l’identità buddista all’interno del perimetro delle mura monastiche. Così, acquisendo formalmente l’identità di un monaco o di una monaca, ci si univa al Buddha in una sorta di affinità fittizia che suggellava la propria identità buddista con una sorta di “naturalezza” e facilitava l’armonia all’interno dei monasteri. In effetti, il rituale per diventare un monaco o una monaca sembra essere stato concepito come una sorta di rinascita nella propria famiglia “originale”, e da allora in poi si è stato chiamato “un figlio del Buddha”. Questo motivo di rinascita è chiaro anche nel modo in cui la propria “età” e anzianità all’interno del monastero è determinata non dall’età reale, ma dal numero di anni trascorsi dall’ordinazione.
La terza sfera del discorso familiare nel buddismo appare nel modo in cui le autorità buddiste, probabilmente fin dalle prime fasi della religione, prescrivevano una condotta adeguata a coloro che rimanevano in famiglia. Queste linee guida morali definiscono la vita da mantenere a casa: si deve essere obbedienti agli anziani e tenere in considerazione i bisogni degli altri, aderendo anche all’insieme generico dei precetti buddisti: non uccidere, rubare, mentire e così via. Date queste affermazioni, e in particolare quelle che sollecitano la sottomissione filiale ai propri genitori e anziani, si può vedere che il discorso buddista era, ed è tuttora, intento a stabilizzare e persino a rafforzare la famiglia. Le ragioni per la difesa del buddismo della pratica familiare tradizionale sono complesse, ma una ragione importante è che i monasteri buddisti facevano affidamento sulle famiglie per sostenerli finanziariamente. Infatti, per facilitare gli scambi tra la famiglia e il monastero, il discorso buddista spesso sottolineava che a casa si è solo un bravo figlio filiale se si patrocinano i monasteri buddisti. Queste ingiunzioni potrebbero anche essere incentrate sulla cura degli antenati, dove si sostiene che i discendenti viventi dovrebbero proteggere i monaci buddisti per arruolare il loro potere spirituale, che potrebbe essere diretto verso la cura dei membri della famiglia deceduti nell’aldilà. In breve, i monaci buddisti si sono inseriti nella sfera dei valori familiari a casa sostenendo che il ciclo di vita della famiglia doveva coinvolgere il patrocinio dei monasteri buddisti.
Per quanto riguarda l’ultima categoria di retorica familiare, in tempi diversi nella storia buddista sono apparse genealogie mistiche in cui una famiglia buddista superiore si era stabilita all’interno dello spazio già domestico dell’establishment buddista. Così, nel buddismo tantrico in India e in Tibet, così come nella scuola buddista Chan nell’Asia orientale, si affermava che alcuni monaci erano più direttamente imparentati con il Buddha rispetto ad altri monaci o monache buddisti. In entrambi i casi, si è fatto affidamento sul linguaggio dei padri e dei figli per spiegare perché alcuni monaci dovrebbero essere considerati rappresentanti viventi della tradizione, con verità, autorità e legittimità che fluiscono direttamente lungo il lignaggio dal Buddha al maestro attuale. In effetti, sono emerse logiche complesse in cui questi “figli del Buddha” d’élite sono stati incaricati di guidare altri buddisti meno connessi alla loro vera relazione familiare con il Buddha.
In sintesi, sebbene il buddismo cercasse di sfuggire alla famiglia, questo stesso sforzo per lasciare la vita domestica fu esso stesso addomesticato e trasformato in una famiglia buddista. Inoltre, questa nuova famiglia buddista stabilì un rapporto simbiotico con la famiglia laica, incoraggiandone la stabilità e la produttività, insieme a un orientamento pro-buddista. Infine, anche all’interno dello spazio familiare dei monasteri, apparvero altre iperfamiglie, suggerendo una continua necessità di ricreare identità e autorità secondo logiche patriarcali, insieme alla sensazione che l’uguaglianza e la differenza nello spazio sociale siano gestite al meglio attraverso la retorica familiare che sono sia inclusivi che gerarchici.