Il termine “religione vissuta” denota un approccio alla questione di cosa sia la religione così come esiste nella società o in un campo sociale. Da questa prospettiva, la religione è intesa come fare, o pratica, ma in un senso distintivo. Nella raccolta di saggi Religione vissuta in America: verso una storia di pratica, ed. David D. Hall (1997), dove questo approccio è perseguito programmaticamente da storici e sociologi, la pratica significa qualcosa di più del semplice fare: si riferisce alle forme di azione attraverso le quali ogni tradizione, “chiesa” o comunità elabora il natura e confini di ciò che significa essere religiosi.
Così definito, questo approccio ha tre aspetti principali: (1) La religione vissuta, intesa come pratica, è un mezzo per riconoscere le differenze che così spesso si aprono tra la dottrina ufficiale o le norme di comportamento e ciò che i seguaci di una religione o di una chiesa “fanno effettivamente”. ” Gli storici della religione vissuta danno per scontato che gli attori religiosi – siano questi clero o laici, “professionisti” o dilettanti – si adattano, si appropriano, resistono o improvvisano in risposta a costruzioni regolamentari, sistematiche o formalizzate di ciò che costituisce la religione. Piuttosto che censurare tali differenze o escluderle come non religiose, lo storico della religione vissuta cerca di mappare questi processi e soprattutto di esplorare come la relazione tra ufficiale e non ufficiale sia sempre negoziata. (2) La religione vissuta come pratica è un mezzo per riconoscere che gli attori religiosi si comportano in modi modellati. La pratica non è casuale o senza scopo, ma assume una struttura o una forma che comunemente designiamo come “rituale”. Di conseguenza, lo storico della religione vissuta è interessato a ogni aspetto del culto e della liturgia, cioè a ciò che accade all’interno di quegli spazi che ricevono la designazione ufficiale come siti approvati per la pratica religiosa. Ma i rituali che si svolgono fuori o ai margini di quello spazio non sono meno interessanti: cene in chiesa, riunioni di famiglia, giorni di santi. Festa della mamma, guarigioni, donazioni, pellegrinaggi ai santuari, per citare solo alcune delle tante possibilità. La centralità del rituale nella descrizione della religione vissuta è parallela all’importanza della teoria rituale, specialmente come ripensata da Catherine Bell in Teoria rituale, pratica rituale (1992), dove il rituale è riformulato come “ritualizzazione” (cioè, sempre aperto e in corso). (3) La religione vissuta riguarda la struttura del significato che è incorporata in una data pratica. Il capitolo di Robert Orsi La Madonna della 115th Street (1985), “The Meanings of the Madonna of 115th Street”, dove spiega i significati multipli, sovrapposti, persino contraddittori di un simbolo, esemplifica una modalità di analisi che collega la pratica al gioco del significato.
Cos’è allora la pratica? Come ho suggerito in Religione vissuta in America (p. xi), “comprende le tensioni, le continue lotte di definizione, che sono costituite all’interno di ogni tradizione religiosa e che sono sempre presenti nel modo in cui le persone scelgono di agire religiosamente. La pratica suggerisce quindi che ogni sintesi è provvisoria”. Non solo questa prospettiva è di grande importanza nella comprensione della religione contemporanea; può anche fornire nuove comprensioni del passato.