La vendetta di sangue è una forma primitiva della legge di punizione secondo la quale un parente deve rivendicare i diritti di un parente il cui sangue è stato versato. Anche nelle società civili si poteva ancora sentire la forza di questa legge primitiva. Secondo l’antico concetto greco ogni atto di spargimento di sangue, anche se commesso per autodifesa, creava una certa contaminazione che richiedeva la purificazione (Platone, Legislazione 916). Non solo il criminale, ma anche la sua famiglia è stata contaminata fino a quando la vita dell’uomo ucciso non è stata placata esigendo vendetta. Il crimine iniziale potrebbe facilmente portare a una serie di crimini reciproci, una faida di sangue o una vendetta. Nelle società primitive un’intera famiglia o anche un intero clan veniva annientato per un omicidio commesso da uno dei suoi membri.
Anche l’antico Israele aveva la pratica della vendetta di sangue basata sulla legge del taglione secondo la quale, per ristabilire la perdita subita da un crimine, il rimborso doveva essere effettuato rigorosamente in natura: “Vita per la vita, occhio per occhio, dente per dente “(Es 21.23–25). Questa legge si basa sia sul principio della sacralità del sangue (Lv 17.14) che su quello della solidarietà tra clan. Nel modo di pensare primitivo di Israele, la vita risiede nel sangue; quando un uomo perde il sangue, la sua vita si spegne (vedi sangue, significato religioso di). Il sangue, quindi, come sede della vita, appartiene a Yahweh, e il suo spargimento sfrenato richiede la vita di colui da cui è sparso (Gn 9.5-6). Il sangue versato per terra grida vendetta al cielo (Gn 4.10; Gb 16.18; Ez 24.6–8; 2 Mc 8.3), e chi lo ha versato si chiede conto (Gn 4.11; 9.6; 2 Sm 4.11; Ez 23.37, 45) da un parente prossimo o vendicatore che agisce in nome di Yahweh.
La solidarietà del clan, il secondo aspetto della vendetta di sangue, si realizza nella persona del vendicatore, che rappresenta gli interessi della famiglia o del clan dell’ucciso. Il dovere della vendetta di sangue era basato sulla teoria che la famiglia, il clan o la tribù fosse un’unità sacra. Quando il sangue di un membro veniva versato, era il sangue della comunità che veniva versato; così, spettava a un rappresentante della comunità espiare il crimine versando il sangue dell’assassino.
Israele, tuttavia, ha cercato di limitare i mali legati alla vendetta di sangue. Secondo la legge israelita solo l’assassino stesso, non la sua famiglia o clan, doveva essere punito per il crimine (Dt 24.16; 2 Re 14.6; 2 Chr 25.4). Mentre la precedente usanza israelita non faceva distinzione tra uccisioni premeditate e involontarie (Gn9.6), l’interpretazione più benevola della legge deuteronomica consentiva a un uomo che ne uccideva involontariamente un altro di cercare rifugio in alcune città designate di asilo (Es 21.13; Nm 35.9-29 ; Dt 19.1–13; Gsè 20.3–9). Se, dopo un giusto processo, l’uccisore veniva giudicato colpevole, la punizione era ancora prerogativa del vendicatore del sangue (Dt 19.12); non era libero di perdonare l’uccisore o accettare un compenso in denaro in cambio.
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