La fine dell’operatore

L’espressione latina tradizionale che indica lo scopo o l’intenzione dell’agente nell’agire, prescindendo dalla considerazione del La fine del lavoro dell’atto nella sua sostanza (costruzione interna). Negli atti creati, il La fine dell’operatore può o non può coincidere con, sebbene non possa mai alterare, il file La fine del lavoro dell’atto stesso. Può esserci un numero indefinito di motivi interni da parte dell’agente rispetto all’atto unico; un atto di furto può essere motivato da avarizia, vendetta, gelosia, ecc .; l’atto coniugale può essere motivato da carità, giustizia o carnalità. Un motivo malvagio non può cambiare la specie di un atto di cui La fine del lavoro è buono; né un buon motivo può cambiare la specie di un atto il cui La fine del lavoro è il male.

Il concetto di La fine dell’operatore è usato non solo per quanto riguarda gli atti umani, ma per analogia per comprendere più pienamente gli atti divini. Nella considerazione dell’atto divino della creazione, la teologia ne distingue La fine dell’operatore dal suo La fine del lavoro. La fine di Dio nel creare (La fine dell’operatore ) è la sua stessa bontà assoluta, il cui amore lo spinge a comunicare alle creature una partecipazione alla sua perfezione infinita H. Denzinger, manuale dei simboli 3002). La necessaria sussistenza di Dio e la sua infinita beatitudine, che connota (Ibid. 3001), preclude, nei suoi atti extradivini, qualsiasi fine diverso da se stesso. Poiché è la prima causa efficiente ed esemplare, deve essere la causa ultima ultima di ogni essere creato.

Vedi anche: La fine del lavoro; fine; Causalità finale.

Bibliografia: Dizionario di teologia cattolica, ed. un. vacant et al., (Parigi 1903–50) 1: 1522–26. w. kern, Lessico per la teologia e la chiesa, ed. j. hofer e k. rahner (Friburgo 1957–65) 4: 139–140. pj donnelly, “St. Thomas and the Ultimate Purpose of Creation”, Studi teologici 2 53–83; “Il Concilio Vaticano e la fine del creato”, ibid. 4 (1943) 3-33.

[mre masterman]