Essere finito, derivante dal latino finito per fine, confine o limite significa lo stesso di essere limitato. Può essere inteso in senso quantitativo o qualitativo. Esempi del primo sono cose limitate in termini di dimensioni, peso o velocità; questi sono conosciuti per esperienza e non presentano particolari difficoltà. Il finito qualitativamente, al contrario di questo, designa un possesso limitato di una qualche perfezione che ammette livelli o gradi. Come concetto è stato a lungo presente nel pensiero filosofico sia d’Oriente che d’Occidente, sebbene abbia subito un’evoluzione degna di nota all’inizio dell’era cristiana.
Nozione di finito. Per il pensiero greco classico il finito era il perfetto, il che significava il completo, il determinato o ben definito o l’intelligibile (poiché la definizione stessa è delimitazione). L’infinito, in opposizione a questo, era l’imperfetto, l’incompiuto, l’indeterminato e senza forma (la materia), o l’inintelligibile. “La natura”, ha detto Aristotele, “vola dall’infinito, perché l’infinito è senza fine o imperfetto, e la natura cerca sempre una fine” (Gene. animale., 715b 14). Fu solo nei primi secoli dell’era cristiana, influenzata prima da Filone Giudaico e dal Neoplatonismo di Plotino, poi da pensatori cristiani, specialmente Clemente d’Alessandria e Gregorio di Nissa, che l’attuale nozione, di infinito qualitativo come supremamente perfetto, cominciano ad apparire e ad essere applicati a Dio. Da questo punto in poi, il finito fu inteso come un livello inferiore dell’essere, uno che possedeva in modo limitato (e quindi imperfetto) qualche attributo o proprietà che l’Essere Infinito (Dio) possedeva in modo illimitato (e quindi supremamente perfetto) . Finito divenne così una nozione primaria per descrivere lo status delle creature, che sono tutte finite per natura, rispetto al loro Creatore, la pienezza infinita di ogni perfezione.
Principi esplicativi. Cosa è necessario per spiegare l’esistenza di qualcosa di finito? È un principio fondamentale dei filosofi cristiani, e di quasi tutti i metafisici sia dell’Est che dell’Ovest, che nessun essere finito può essere autosufficiente o autoesistente, ma deve dipendere dall’Essere Infinito come sua fonte ultima. La limitazione nella natura di un essere richiede sempre qualche causa superiore al di fuori di quell’essere, poiché nessuna cosa può determinare la propria natura per possedere questo o quel grado di perfezione e nessun altro. Se lo facesse, sarebbe allora causa ed effetto del suo stesso sé. Allo stesso modo, se la causa è essa stessa finita, richiede ancora un’altra causa. Poiché una catena causale dove tutti i membri sono solo di natura finita non possono mai contenere una causa adeguata per nessuno dei membri, in definitiva ci deve essere una fonte infinita che possiede la perfezione in questione, non da un altro, o per partecipazione, ma della sua stessa natura e in pienezza illimitata . Da questa sorgente infinita tutti i possessori finiti di un attributo lo ricevono o vi partecipano, ciascuno secondo la propria capacità finita.
Quindi il primo requisito perché qualcosa sia finito è una causa esterna, in definitiva una causa infinita. Il secondo requisito è una composizione di elementi all’interno dell’essere stesso che risulti e rifletta l’azione limitante della sua causa esterna. Secondo San Tommaso d’Aquino (La pentola. 1.2; ST 1a, 50.2 ad 3–4; 75.5 ad 1, 4) e la scuola tomista, il possesso di una certa perfezione, una perfezione partecipata, richiede una dualità o composizione di due elementi correlativi, ma non identici, all’interno dell’essere finito: uno per spiegare la perfezione partecipata, che di per sé non ha limite particolare poiché si trova in esseri diversi in gradi diversi; l’altro per spiegare la capacità limitata di questo particolare partecipante. San Tommaso ha utilizzato i termini potenza e atto, che si trovano già in Aristotele con una connotazione alquanto diversa, per descrivere questa composizione interna di un principio limitante con la perfezione che limita.
Come si conosce il finito. Poiché finito è essenzialmente un termine relativo o comparativo, un essere non può essere conosciuto come finito se non in confronto a qualcosa di più perfetto. Le opinioni divergono sul fatto che il termine ultimo di confronto possa essere semplicemente un altro essere finito o se debba essere una sorta di infinito. Affermando che non è necessario avere una conoscenza esplicita di Dio come essere infinito prima di riconoscere che le creature sono finite, i filosofi teisti hanno comunemente argomentato dalla finitezza delle creature all’infinito di Dio. In tempi recenti, tuttavia, alcuni filosofi cristiani, ad esempio Maurice blondel, Joseph marÉchal, Karl Rahner e Johannes Lotz, sostengono che per conoscere un essere esplicitamente come finito, si deve fare riferimento simultaneamente, anche se solo vagamente e implicitamente, a qualcosa senza limiti , come l’essere e la bontà. Traendo ispirazione in parte dalla tradizione agostiniana, in parte da San Tommaso e in parte dalle intuizioni di filosofi moderni come hegel, sottolineano che conoscere un limite come limite è almeno pensare o desiderare l’illimitato.
Nonostante piccole differenze, filosofi e teologi cattolici concordano sul fatto che la conoscenza dell’uomo del finito, per la mente capace e disposta a riconoscerlo, punta verso la sorgente infinita e il fine ultimo di ogni essere, dio.
Vedi anche: infinità di dio; limitazione; potenza; dio, prove per l’esistenza di.
Bibliografia: F. SuÁrez, discussioni sulla metafisica, Disp. 31, sez. 13 pollici I lavori, Vivés ed. v.26. wn clarke, “The Limitation of Act by Potency”, La nuova scolastica 26 (1952) 167–194. g. giannini, Enciclopedia filosofica (Venezia-Roma 1957) 3: 54–58.
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